Nubi fosche, cielo incupito ed una pioggia incessante, implacabile: nei
telegiornali di tutta Italia, questo era il volto di Firenze nel primo
giorno di un Agosto che si presentava così caldo e sereno. Un improvviso cambiamento in un pomeriggio caldo e leggermente afoso,
come tanti altri precedenti: in un attimo, ho visto Ponte Vecchio,
affollato di turisti, curiosi e semplici passanti, divenire un luogo
solitario, battuto dal vento, rischiarato, di tanto in tanto, da qualche
fulmine, abbandonato precipitosamente all'infuriare del temporale. Era difficile riordinare i pensieri, mentre
la preoccupazione più pressante era quella di trovare un riparo abbastanza grande e proteggere le poche parti del corpo rimaste asciutte: certo, non avevo immaginato così la presentazione del mio libro, prevista proprio quel pomeriggio, in un bellissimo giardino all'orizzonte del quale si stagliava persino la torre di Palazzo Vecchio. In molti, una volta appreso del disastro dalle notizie, mi chiesero subito come stessi e mi rinnovarono il loro dispiacere per l'imprevisto: peccato, pensarono, essere andati fino a Firenze senza aver goduto della città, dei suoi tesori, del contatto con il pubblico.
La loro sorpresa dovette essere grande, quando replicai che, al contrario, quel viaggio era stato provvidenziale in ogni sua vicenda ed, invece di aver perso qualcosa, sono tornata sentendo di aver guadagnato molto più di quanto sappia dire. Una volpe sagace che non riesce ad arrivare alla succosa uva davanti a lei, commenterete voi: eppure, anche in questo caso, vi smentirei subito con un piacere assai minore di quello di raccontarvi cosa mi infonda così tanto ottimismo nel considerare questa trasferta in Toscana una nuova, inaspettata avventura piuttosto che un colossale fiasco.
la preoccupazione più pressante era quella di trovare un riparo abbastanza grande e proteggere le poche parti del corpo rimaste asciutte: certo, non avevo immaginato così la presentazione del mio libro, prevista proprio quel pomeriggio, in un bellissimo giardino all'orizzonte del quale si stagliava persino la torre di Palazzo Vecchio. In molti, una volta appreso del disastro dalle notizie, mi chiesero subito come stessi e mi rinnovarono il loro dispiacere per l'imprevisto: peccato, pensarono, essere andati fino a Firenze senza aver goduto della città, dei suoi tesori, del contatto con il pubblico.
La loro sorpresa dovette essere grande, quando replicai che, al contrario, quel viaggio era stato provvidenziale in ogni sua vicenda ed, invece di aver perso qualcosa, sono tornata sentendo di aver guadagnato molto più di quanto sappia dire. Una volpe sagace che non riesce ad arrivare alla succosa uva davanti a lei, commenterete voi: eppure, anche in questo caso, vi smentirei subito con un piacere assai minore di quello di raccontarvi cosa mi infonda così tanto ottimismo nel considerare questa trasferta in Toscana una nuova, inaspettata avventura piuttosto che un colossale fiasco.
Poco prima che la pioggia si abbattesse su Firenze, ero accanto ad Augusta Tomassini, una poetessa che avevo conosciuto lo scorso giugno, nel ritirare il premio a Parigi: avremmo
fatto la presentazione insieme, in un dialogo polifonico fra donne
diverse, ma, nell'essenza, profondamente simili. Stavamo camminando
vicine, nel bellissimo lungarno: a vederci, ci avreste scambiato per
amiche di vecchia data. Ma, ad uno sguardo più attento, qualcosa sarebbe balzato subito all'attenzione: dietro gli occhiali scuri, Augusta nascondeva la convivenza con la retinite pigmentosa, patologia che, progressivamente, l'ha portata ad essere ipovedente. Non si è mai sicuri nel relazionarsi a persone come Augusta: si è impacciati, si ha paura di dire la cosa
sbagliata o di urtare, per sbaglio, i sentimenti dell'altro, si finisce
per sentirsi a disagio e pensare di non essere in grado di capire fino
in fondo le loro esigenze, i loro desideri. Confesso che anche io ho
provato gli stessi dubbi, gli stessi tentennamenti: mentre ci arrabbiamo
per motivi futili e ci riempiamo di oggetti o scuse superflue, Augusta
non avrebbe potuto più assaporare la bellezza del tramonto, la dolcezza
dello sguardo di un bambino o la limpidezza del mare in estate... ma io
sì e avevo sempre svolto queste azioni meccanicamente, senza pensarci
troppo su, perché "sono naturali".
Poi, superato il senso di inadeguatezza, ci si sente invadere da
qualcosa di appagante e magico, che, altrimenti, capiterebbe raramente
di poter sperimentare: la sensazione di essere importanti per qualcuno,
di prendersene cura e di avere in custodia, nelle proprie mani, la
felicità di un'altra persona, altrettanto assetata di amore e felicità. Mentre procedevamo spedite alla volta di Ponte Vecchio, Augusta aveva
intrecciato il suo braccio al mio: sembrerà un gesto semplice e
scontato, per molti, ma io capii immediatamente tutta la responsabilità
che comportava quella mano tenacemente aggrappata alla mia e, insieme,
tutta la forza che potesse scaturire da una stretta del genere. Ero i
suoi occhi, la stavo guidando per Firenze, attenta che non venisse
urtata da turisti frettolosi o inciampasse nei gradini di qualche
scalinata: ero fondamentale per lei, ma, in realtà, stavo cominciando a
capire quanto lei stesse diventando importante per me.
Cecilia Cozzi con Maria Gemma Ranucci e Augusta Tomassini |
Sarò pur stata io a farle strada e ad aver attenzione per lei, ma, nel
frattempo, era Augusta a raccontarmi come fosse riuscita a riemergere
dalle tenebre della disperazione, con l'incalzare della malattia e,
qualche tempo dopo, la perdita del marito, compagno di una vita e padre
dei suoi figli. La guardai attentamente: nel suo volto, stava spuntando
un dolce sorriso e non sembrava esserci più spazio per quel l'angoscia,
quella solitudine con cui aveva combattuto, fino a poco tempo prima, ma,
anzi, la forza di chi le aveva sconfitte, a suon di versi e di poesia.
Ma anche di amore: quello delle persone care, senza le quali non
potremmo immaginare la nostra vita; quello per la vita e i suoi stupendi
colori; quello per l'arte ed il bisogno, mai saziabile, di condividere
il nostro mondo con gli altri.
Per questo, a ben vedere, la nostra poteva davvero sembrare la
conversazione di due amiche che si rivedono dopo tanto tempo: alcune
risate sonore interrompevano di tanto in tanto la chiacchierata, mentre
alternavamo confidenze più intime a motteggi scanzonati e battute
colorite, con la semplicità e la naturalezza del sentimento autentico. Certo, la violenta bufera ci ha costretto a interrompere bruscamente i
nostri racconti e a tornare con la mente all'urgenza del momento:
l'imponderabilità del caso o del destino, a seconda delle vulgate, aveva
decretato ben altra fine al nostro pomeriggio così ben avviato. Eppure,
al di sotto di una delle arcate del Ponte Vecchio, ho capito, ho capito
nitidamente il lascito più profondo di quell'intenso dialogo
precedente: eravamo tutti infreddoliti, bagnati, intenti a trovare un
riparo abbastanza tenace da coprirci, almeno parzialmente, dal vento
sferzante e la pioggia battente. Non c'erano differenze alcune, eravamo
entrambe sotto lo stesso cielo e sotto il medesimo acquazzone: ma lo
stavamo affrontando unite, l'una accanto all'altra, senza domande o
reticenze. Ed è così che una terribile tempesta mi ha aperto gli occhi
più di tante presentazioni itineranti in giro per l'Italia: grazie,
Firenze!
Cecilia Cozzi
Incontro svoltosi al Festival “Fiume d’Arte” alla “Casetta del Buon Vino” in occasione della presentazione di Augusta Tomassini “L’altra me” e di Cecilia Cozzi “Aspasia, Storia di una donna" sabato 1 e domenica 2 agosto in Piazza Demidoff Firenze
diretto e organizzato da Annamaria Pecoraro (Direttore di Deliri Progressivi)
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