Siamo
quotidianamente in balia di messaggi inquietanti, preoccupanti e
caotici: sembra quasi che interpretare il mondo circostante diventi
sempre più difficile, sempre più complesso. Dalla nostra, abbiamo una
sola consapevolezza, quella di vivere in un'epoca di crisi, in un lungo,
interminabile tramonto di grandi ideali e sogni, dove un inestinguibile
grigio si è impossessato di tutto e ci impedisce di vedere i colori con
la stessa lucentezza di qualche generazione fa. La parola crisi (segue)
rimbomba spesso nelle nostre teste, riecheggia spesso nei nostri
discorsi e, lentamente, diventa l'alibi per non andare oltre, per
giustificare stancamente ciò che di storto ci capita, quasi come una
patente di accettazione e rassegnazione con cui proteggerci, con cui
falsamente rassicurarci. Nessuno, però, spende un po' del suo tempo a
spiegare come sia questo rumore di fondo pessimista e martellante,
questo ritornello ormai irrinunciabile per tutti noi a cominciare la
crisi, ad avallarne lo sviluppo e a rinforzarne la cupa presenza nelle
nostre menti, nei nostri cuori. La crisi comincia soprattutto quando la
si percepisce dentro di sé, quando si sente, nella "pancia", che ormai la
battaglia è persa e che il mondo è troppo corrotto e contaminato per
essere ancora quel bel giardino fiorito che ci immaginavamo da bambini.
La crisi siamo noi, con i nostri dubbi e i nostri sconforti, con quel
velo che annerisce tutto e non solleviamo mai per vedere da vicino ciò
che ci circonda e che pensiamo, a torto, di conoscere bene. Crediamo ci
sia sempre tempo per controllare statistiche poco rassicuranti, per
alzare la voce e prendercela contro lo stesso sistema che ci ha reso
quali siamo tuttora, ma mai per dare un po' di speranza, mai per dar voce
alla bellezza di un tramonto, di una canzone o di un incontro
fortunato. Sembra che non ci sia spazio per tutto questo e, lentamente,
cominciamo a farne a meno e a pensare che davvero non ci sia più nulla
di cui rallegrarsi, che i bombardamenti mediatici hanno ragione e la
nostra vita scorrerà implacabilmente rinchiusa nei binari della crisi e
della recessione. Cosa succederebbe, invece, se ognuno di noi perdesse
qualche minuto prezioso per raccontare qualcosa di bello, qualcosa che
lo ha appassionato, qualcosa che lo ha emozionato? Continuiamo a dire
che nulla, nella decadenza contemporanea, può stupirci più, ma, in
realtà, l'uomo è nato per meravigliarsi, per guardare l'ambiente
circostante, senza smettere di farsi domande e scoprire, spesso, come ci
sia più gusto nel porsi interrogativi, che non nel rispondersi. Perché,
allora, non prendersi qualche minuto, in treno, per appoggiare la
schiena allo schienale ed osservare un sole nascondersi nelle montagne o
le onde infrangersi contro una spiaggia ancora deserta? Certo,
all'apparenza sembra meno interessante, perché ormai ci siamo abituati a
ricordare gli innumerevoli ritardi di Trentitalia, a lamentarci per la
scortesia degli altri passeggeri e a sbuffare frequentemente pensando a
quante ore ancora ci aspettino. Eppure, è proprio un gesto così
semplice, così puro nella sua ingenuità, a poterci ridare, anche se per
pochi minuti, quel sorriso che, magari, latitava da tanto sulle nostre
labbra, una gioia inebriante ed appagante di cui siamo sempre alla
disperata ricerca. Mentre ci angustiamo, mentre siamo chini a curarci di
noi e guardare solo alle nostre quotidiane disavventure, il mondo, là
fuori, continua: il sole continuerà sempre a tramontare con la sua
bellissima luce arancione, le montagne innevate continueranno a
stagliarsi in lontananza, il mare continuerà ad abbracciare il cielo
azzurro in un nodo inscindibile. E se questi spettacoli, invece di
scomparire, sono ancora vicini a noi, davanti ai nostri occhi un po' disattenti, perché non ne siamo grati? Perché continuiamo a parlare di
crisi, invece di parlare di luci, colori, emozioni?
Cecilia Cozzi
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